Le operette immorali/ 3: Dialogo tra il Grande Inquisitore e Casini.

L’azione si svolge al centro della Romanità, alcuni anni dopo che il Grande Inquisitore ha compiuto il proprio capolavoro ricacciando Gesù nel suo regno celeste. Il funzionario, ormai più che novantenne, si è ora incurvato, ma nel fondo dei suoi occhi guizza talvolta una corrusca scintilla, e le labbra gli si aggrottano ancora come ai bei tempi quando, sfilacciata nel tepore della sera, dal mare spirava una brezza corposa che lambiva i grandiosi autodafè e roghi solenni sui quali bruciavano migliaia di eretici a maggior Gloria di Dio e della Romanità tutta. Ora che pure Gesù è stato tolto di mezzo, il potere del Grande Inquisitore è sterminato: ad un suo gesto le folle si curvano e spaccano, e poi si ricompongono armoniosamente, ed è il suo cuore la legge dell’intero paese. E tuttavia, a turbare tale perfetto equilibrio, in questi giorni è comparso in piazza un personaggio nuovo, misterioso, discendente diretto e preferenziale di nostro signore Gesù Cristo e che tramite Lui, nella Sua infinita misericordia, vuole visitare di nuovo il Suo popolo. Ha già compiuto diversi miracoli, il più clamoroso dei quali è stato creare AUSL e municipalizzate di trasporti con più personale che utenti. Le genti sono ormai attratte verso di Lui da una potenza irresistibile, Lo circondano, Gli crescono intorno, Lo seguono ovunque. Egli passa in mezzo a loro col Suo gessato blu, silenzioso, brizzolato, con i santini elettorali in mano. Il sole della lottizzazione arde nel Suo sorriso, i raggi del rimpasto, dei congressi di corrente e delle assemblee di sezione si sprigionano dai Suoi occhi e, inondando gli uomini, ne fanno tremare i cuori in una rispondenza d’interesse consociativo. Egli tende loro le braccia, li benedice e dal contatto di Lui, e perfino dalle Sue vesti, emana una rinfrescante forza clientelare. Ma – fermi uomini! – ecco che un vecchio, presidente di una cooperativa bianca, sfinito dai controlli della Guardia di Finanza, grida dalla folla: “Signore, permettimi di evadere ancora, e io Ti voterò”, ed ecco che cade ai suoi piedi un’ordine dall’alto volto a insabbiare tutto, e il povero vecchio Lo vota. Il popolo piange e bacia la terra dove Egli lascia cadere i santini. I dipendenti pubblici gettano fiori dinanzi a Lui, cantano e Lo acclamano: “Dopo averLo visto, non ho più voglia di fare un cazzo, e già che prima...”. “E’ Lui, è Lui”, ripetono tutti, “dev’essere Lui, non può esser che Lui”. Egli si ferma sul sacrato della cattedrale nel preciso momento in cui portano nel tempio, fra i pianti, una candida bara senile aperta: c’è dentro una vecchia insopportabile di settant’anni, devotissima di Padre Pio, unica figlia di un insigne cittadino che già aveva donato alla gloriosa Chiesa di Roma, morta di crepacuore perché avrebbe tanto voluto abbeverare le giovani menti con la purezza dell’insegnamento religioso, ma era talmente stolida, ignorante e bigotta che il Provveditorato ne rigettò la domanda. “Egli risusciterà la vecchia e lottizzera' la scuola”, grida dalla folla un manipolo di devoti insegnanti di religione in aspettativa ansiosi di diventare di ruolo e mettere le mani su benefici e prebende.
Ma ecco risuonare a un tratto il grido di un sindacalista CISL, che si getta ai Suoi piedi: “Se sei Tu, risuscita la nostra creatura!”, esclama, tendendo le braccia verso di Lui. Il corteo si ferma, la bara è deposta sul sacrato ai Suoi piedi. Egli la guarda con pietà e le Sue labbra pronunziano piano, come in un soffio, ancora una volta: “Zozmel ad pugneti... Scavte de cazz!”. La vecchia si solleva nella bara, si siede e guarda intorno sorridendo, le carni avvizzite e cadenti ma pronte di nuovo a portare la battaglia del disegno intelligente nelle scuole, nelle mani ancora la stampata degli editoriali di Ferrara con la quale era distesa nella bara. Il popolo si agita, grida, singhiozza; ed ecco in questo stesso momento passare accanto alla cattedrale, sulla piazza, il cardinale Grande Inquisitore in persona. Con un solo cenno del capo egli ordina alle sue guardie di incatenarlo. Le guardie conducono l’erede del Salvatore in un tetro carcere umido ricavato da fredda pietra, all’interno del cortile del Sant’Uffizio: poi arriva la notte, ed il Grande Inquisitore in persona, con una fiaccola in mano, si reca a far visita al prigioniero. “Allora sei tu, non ti è bastata una volta, sei tornato a seminare scandalo fra il popolo, e sì che mi pareva di essere stato chiaro.” Ma, non ricevendo risposta, prosegue. “Vedo che non rispondi, che taci. E infatti, che potresti dire? So troppo bene quel che puoi dire. Del resto, non hai il diritto di aggiunger nulla a quello che Tu già dicesti una volta. Perché sei venuto a disturbarci? Sei infatti venuto a disturbarci, lo sai anche Tu. Ma sai che cosa succederà domani? Io non so chi Tu sia, e non voglio sapere se Tu sia Lui o soltanto una Sua apparenza, ma domani stesso io Ti condannerò e Ti farò ardere sul rogo, come il peggiore degli eretici, e quello stesso popolo che oggi baciava i Tuoi piedi e reclamava clientele si slancerà domani, a un mio cenno, ad attizzare il Tuo rogo, lo sai? Sí, forse Tu lo sai”, – aggiunse, profondamente pensoso, senza staccare per un attimo lo sguardo dal suo Prigioniero. “Bel lavoro hai fatto con questa marmaglia – continuò il Grande Inquisitore – Guardati attorno e dimmi: non è forse vero che ove ti volgi, ove giri il capo vedi soltanto macerie nere della vita, e un gregge di pavidi agnelli pronti a belare al primo sussulto di chi gli ordini di inchinarsi? Sai bene quale scompiglio porteresti ancora, contrapponendo la tua risibile ansia di libertà alla vera angoscia dell’uomo, quietata solo dal potersi prostrare davanti all’autorità incontestabile. Tu lo sai, che ho ragione. Tu lo sai, che l’autorità è indispensabile per marchiare quella vile creta di cui è fatto l’uomo, creatura così miserabile e vacua che talvolta io stesso ho schifo dei miei roghi, ma non per pietà, bensì per la vanità dei risultati. Posso bruciarne mille, diecimila, e ancora me li vedo attorno, sotto le mie finestre, a giocare con l’eresia come un bambino coi suoi balocchi, e piangere quando lo rompono”. “Non parli? E che potresti aggiungere? Lo vedi anche tu come muoiono dalla voglia di sottomettersi a noi, alla tagliente spada di Augusto e alla croce aguzza di Pietro. Rassegnati: hai fallito. Provati, ad aizzare l’uomo e la sua ridicola libertà contro di noi: li vedrai piangere come dei vitellini davanti ai nostri roghi già pronti. Anzi saranno proprio loro a dargli fuoco, senza aspettare il nostro ordine, per quella paura meschina che da sempre ne infetta i cuori. Adesso vattene, come hai già fatto, o farai la loro fine. Prova a restartene qua, e ti faccio un culo come un campanone. E sappi che nessuno avrà il coraggio di seguirti, di questa stirpe miseranda e irrimediabilmente bambinesca. Hai avuto fortuna, mi hai preso in un momento di buona: ma non sempre chi sfida l’autorità superiore che alberga in noi può avere lo stesso culo. Cazzi suoi”.
A questo punto il Grande Inquisitore, quasi spazientito, si alza. Si aspetta che il discendente del Salvatore lo baci come dieci anni prima, e poi scompaia. Ma il prediletto di Nostro Signore estrae una cartellina della Presidenza della Camera, avvicina la sedia, prende dolcemente la fiaccola dalla mano dell’inebetito Inquisitore, illumina i dati e per la prima volta dopo più di duemila anni, profferisce parola. Casini: “Ma Sua Eccellenza non deve preoccuparsi: come può facilmente vedere, ci stiamo muovendo esattamente nella direzione gradita a Sua Eccellenza”. Il Grande Inquisitore, incredulo, schianta sulla sedia. Quasi si accascia a tale affronto, gli ripassa davanti agli occhi la vita: l’emozione dei i primi roghi, la brillantezza faticosamente trovata nelle prime scomuniche, e poi tutte le crociate, le battaglie, le iniziative volte ad erodere chetamente il potere politico… eppure, qualcosa di doloroso ma anche di straordinariamente calmo gli irrompe nel cuore. Si ridesta, quietamente si riaccomoda. La confusa nebbia di un secondo prima si dissolve. Cerca le parole. Il ruolo gli impone di salmodiare ieraticamente, quasi con un tono impercettibile. Vorrebbe scandire sottovoce, e invece quasi urla di gioia. “Finalmente qualcuno con cui si può parlare, eccheccazzo”. Casini: “Vedo con piacere che Sua Eccellenza dimostra di non essere totalmente avverso alle nostre iniziative. Mi permetto di chiedere a Sua Eccellenza un esame, al termine del quale ho l’ardore di sperare di non riuscire del tutto sgradito a Sua Eccellenza”. Grande Inquisitore: “Cominciamo dai fondamentali: se – il giorno è ancora lontano, beninteso, ma se dall’alto della nostra magnanimità e perfetta amministrazione decidessimo di riconsegnare un briciolo di potere politico a voi… ehm… - (lo dice come con un groppo in gola) - …dicevo, a voi… ehm… a voi laici…, ecco, se un giorno un organismo sovranazionale si arrogasse il diritto di fare le pulci ai nostril bilanci e alle nostre giuste esigenze, quale risp…” Casini (lo interrompe sorridendo): “Tali ingerenze non potrebbero che provenire da cattedre discutibilissime, che la mia parte politica, ben versata nell’arte di trattare l’apatica indifferenza del gregge come consenso esplicito, non avrà difficoltà a smontare con sondaggi ben calibrati e ritagli di opinioni manipolate ben preparati”. Grande Inquisitore (quasi ringiovanito, parlando come fosse un ufficiale inquadratore che serra le reclute): “E se qualcuno rompe i coglioni con diritti civili e assurde pretese come divorzio e – non volesse il cielo – aborto?” Casini: “Stiamo giustappunto per deliberare l’assunzione di quindici milioni di nuovi poliziotti. Essi si incolleranno, uno per uno, ad ogni donna fertile del paese controllandone ogni mossa. Le seguiranno, le sorveglieranno istruendole, ed impedendo qualsivoglia infrazione al codice del catechismo che Sua Eccellenza si degnerà di suggerirci. Ad ogni sgarro, la derelitta verrà consegnata direttamente al braccio secolare di Sua Eccellenza. La proposta era, è della mia parte politica: una collaborazione fattiva con Sua Eccellenza per mandare quante piu' persone possibili in Paradiso”. Per la prima volta nella sua vita, una smorfia di ammirazione increspa il volto fiero del Grande Inquisitore. Grande Inquisitore: “Porco dio, ma allora dall’ultima volta qualcosa hai imparato!”. Casini: “Mi rallegro nel vedere che Sua Eccellenza valuta con non totale disdegno la nostra umiltà. Modestamente, lo facciamo per il bene del popolo: senza di noi, quel branco di miserabili deficienti si aggrapperebbe a principi illusori o, peggio ancora, non saprebbe dove andare. Pertanto noi crediamo che tutti farebbero bene ad ascoltare con attenzione gli insegnamenti di Sua Eccellenza. Non permetteremo mai che si attenti alla sacralità e indipendenza di Sua Eccellenza, anche in materia fiscale e finanziaria. Tutti siamo convinti che Sua Eccellenza ed il suo braccio secolare debbano essere riposati e ben nutriti per ammaestrare compiutamente il nostro povero e cieco gregge”. Grande Inquisitore (non osando credere ai suoi occhi, dicendo cose che neppure ha mai osato pensare): “E se mai qualcuno volesse dubitare della nostra, non dico della nostra… della nostra autorità ma… esequalcunovolessemaidubitaredellanostraverità?”. Casini: “Non scherziamo. Nulla può pretendere non dico di sostituirsi, ma di dubitare della verità. La quale, per definizione, è portatrice di libertà, ma della libertà giusta, non quella scriteriata del gregge. La libertà giusta, come la vera laicità, non possono che promanare dall’autorità incarnata nella centralità romana e, in ultima analisi, vidimata dallo strumento amministrativo di garanzia di Nostro Signore in terra, ovvero da Sua Eccellenza”. Grande Inquisitore (col piglio di un ventenne, giubilando): “E quindi?” Casini: “E quindi, dovendo muoverci in una determinata direzione, scegliendo fra una alternativa o l’illuminante e infallibile parola di Sua Eccellenza, noi sceglieremo sempre, senza eccezioni, Sua Eccellenza”. Il Grande Inquisitore ha ora il volto calmo, ma non pallido. Le ultime parole del Salvatore ne hanno schiarito la carne, ammorbidito le rughe. Stringe i pugni, dentro è come un leone, al rimpianto di non avere mai avuto prima di ora interlocutori alla sua altezza, prevale un sentimento di placida soddisfazione. Prende la torcia dalle mani del Salvatore, dice alle guardie di lasciarlo libero, e si abbandona esanime sulla sedia. Oggi, finalmente, ha potuto morire in pace. (Postato da Anskji su assillante invito del padrone di casa)

Questo post è stato pubblicato il 14 ottobre 2007 in . Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. o se vuoi lasciare un commnento.

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